nina nana o more bir: un video di pierfabrizio paradiso, girato durante il workshop di bari
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un progetto di Associazione Culturale TooA, Comune di Milano, BJCM, Biennale Puglia 2008 – in collaborazione con Arci Bari e con AMTAB – con il patrocinio di Bari Porto Mediterraneo
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testo critico di Daniele Franchi e
Bianca Pinzi
WAIT FOR ME TILL I’LL CAME
Non siete più voi. Siete un bambino.
È il 1991, sul mercantile Vlora, con qualcuno della vostra famiglia, vi siete portati via da Durazzo l’identità della vostra terra, in un isolamento che vibra tra gli altri, corpo a corpo tra altri 20.000 isolamenti, albanesi come voi.
Avete navigato per un giorno, e se siete arrivati a Bari senza stare male, resistendo alla fitta calca in un’imbarcazione malandata e nata per trasportare merci, se avete resistito alla sete e alla stanchezza, voi, un bambino, tra la disperazione degli adulti, continuate a sentite la mano di chi vi ha portato con se. La stretta è forte, vi strattona: bisogna stare attenti a non perdersi, a non lasciarsi. Bisogna stare vicino a chi ha capito cosa la Polizia sta indicando, bisogna cercare di non smarrire i conoscenti, stare più uniti che si può anche dopo ore di vicinanza forzata sulla Vlora.
Vostro padre o vostra madre non sorridono, avete paura. Vi chiamano, vi dicono di correre, di sbrigarvi a salire sull’autobus.
Il bus di linea urbana ha grandi porte, alte il doppio di voi. Volete stare in piedi, appoggiarvi al vetro per vedere, ma vi tengono in braccio, vostra madre continua a stringervi forte. Dalle porte iniziate a conoscere Bari –Italia-, che sfila partendo dal porto.
Questo è quello che è successo, nell’agosto di 17 anni fa.
Per il laboratorio BARI PORTA A LEVANTE, proposto da 12 nautical miles ISOLARIO con intelligenza sensibile come sonda per stabilire diverse misure d’arrivo di diverse distanze tra la Puglia e il Mediterraneo, Pierfabrizio Paradiso ha scelto di cercare tra le pieghe del noto episodio accaduto nel 1991.
È impossibile concepire il lavoro di Pierfabrizio in un’ottica di separazione che lo distingue come artista rispetto a ciò con cui si mette in comunicazione. Sarebbe riduttivo, in primo luogo per il percorso non breve, nonostante la sua giovane età, che lo ha portato fin qui.
La sua prassi lavorativa è inseparabile dal contesto indagato: parte, da straniero, alla volta di quanto può essere riportato in superficie di una tessitura collettiva attraverso un tramite preciso. vale a dire l’emozione condivisa con le persone che hanno tracciato il percorso sul quale lui si trova a segnare nuove linee di passaggio. Ed ancora: mutua, da queste persone, gli stati d’animo, distilla le percezioni, perchè non può fermarsi solo alla registrazione. È un reportage, ma di estrazione complessa e volendo anche atemporale. Il piano delle immagini viene dislocato dal fronte della percezione visiva a quello della percezione affettiva.
Fa da ponte la nenia cantata in albanese, che agisce come simbolo significativo al di là della conoscenza della lingua, bastano il tono e la cadenza a interrompere il distacco culturale ed a riconoscere nel canto l’infanzia.
La modalità che l’artista sceglie per confrontarsi con la realtà sociale è intensa, e dal lavoro si estrapola una voce che non classifica e che non insegna, ma semplicemente pone un attenzione troppe volte disattesa. Lungi da ogni irruente posizione di protesta polemica, Pierfabrizio cerca piuttosto di isolare e connotare segnali, che sta poi allo spettatore qualificare, lasciandogli una libertà di scelta nel pieno rispetto dell’esperienza personale.
Nell’agosto dell’approdo del Vlora l’artista aveva nove anni. E perché non immaginarsi un suo ripercorrere intimo di quei fatti mettendosi nei panni di un suo coetaneo, in due momenti differenti? Il primo, quello dello sbarco, la prima vista di Bari. Il secondo, un ricordo che riaffiora a distanza di quasi 20 anni, marcato, pur nel dolore del suo epilogo, dalla dolcezza struggente della ninna nanna albanese: un vero e proprio medium narrativo.
Quello che succede e le persone coinvolte nei fatti, appartengono, secondo l’ingenuità di un bambino, a un naturale accadere. I frames che scorrono per qualche minuto sospendono il dramma, e guadagna spazio l’aspettativa innocente, campo ancora pulito dai pregiudizi, da intossicanti assiomi morali. Il bimbo guarda, osserva e ascolta la voce della madre, viaggia, sta semplicemente viaggiando.
Nel video è ripresa la mente veloce di un bambino, e con essa la capacità di rigenerarsi, prendendo lo slancio da trampolini esiziali per gli adulti.
La città sotto il sole scorre oltre il vetro dell’autobus. Non è un caso che la vista sia filtrata dalla porta con il segnale di DIVIETO D’ACCESSO. Il cartello, che si fa sempre più “prepotente”, quasi annuncia non solo la sofferenza che aspetta i profughi al centro d’accoglienza improvvisato nello Stadio della Vittoria, ma anche quella che sarà la difficile integrazione tra gli italiani. Tutto ciò accompagnato sempre dal suono della canzone che sembra aumentare la sua portata emotiva, divenendo una sorta di coro che poi inevitabilmente si interrompe …
Pierfabrizio intenzionalmente non concede importanza o non sottolinea la valenza estetica del suo lavoro. In lui l’estetica quasi coincide con necessità: necessità di essere del proprio tempo, di conseguenza ricerca un canone di rappresentazione che dia accesso diretto all’arte e a quello che con esso comunica, non al suo fenomeno.
L’artista arriva a questo testando se stesso, ripercorre i passi di quella giornata in prima persona, individuando se ciò che sente è un’esperienza autentica o è mediata dal contesto in cui è immerso.
Il suo intervento creativo rivela un’intenzione di misurarsi con i vari aspetti dei luoghi, da lui trasformati in cornice determinante dell’evento stesso: gli aspetti psicologici, i fenomeni culturali e sociali nel loro manifestarsi e l’indagine sul comportamento dell’uomo nell’ampio contesto collettivo diventano un sensore d’analisi.
Talvolta l’irrilevanza dello scorrere - tale quando non osservata fino in fondo – contiene in nuce ciò che con l’artista diventa epifania. È qui che inizia il lavoro creativo, come nel caso di Nina Nana O more Bir, dove un viaggio in autobus diventa IL viaggio. L’opera è nella precarietà di un momento che cerca equilibrio tra più parti, senza necessariamente spiegarle.
Come finisce il video? In 20.000 modi diversi.
Daniele Franchi
Bianca Pinzi
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